Oggi voglio riportare un frammento di vita di una persona a me molto cara, sprofondata più volte nel buio, ma sempre riemersa nonostante le difficoltà e le paure. Spero possa servire ad allargare i vostri orizzonti e a guardare oltre in ogni persona che vi passa accanto.
"...Lo sguardo impietrito
… il sangue che pulsa nelle vene del collo … un senso di soffocamento …
incapacità di muoversi. Una bambola di pezza afflosciata su se stessa. Gli
occhi persi fissano quel lungo corridoio dalle pareti squallide con scritte
appartenenti a miriadi di piccoli mondi immaginari.
Figure dallo sguardo
proiettato in un altro mondo, passeggiano avanti e indietro come leoni in
gabbia. Ho paura … le mie gambe non si muovono … riesco solo a scuotere la
testa in senso di diniego, mentre un sudore freddo si impossessa sempre più di
me.
Incrocio sguardi persi
che rimarranno impressi nella mia anima come cicatrici profonde … quel
giorno la vita, ancora una volta, mi
metteva a dura prova.
La voce
dell’infermiera mi scuote dal torpore che ormai si è impossessato di me e una
signora in camicia da notte, vestaglia e pantofole, mi si avvicina e sorridendo
mi dice:- Vieni, ti troverai bene con noi … siamo una famiglia.
“Famiglia” per me
significa protezione, calore, abbracci, comprensione, mani tese … è una parola
magica, appartenente a un ideale così alto che ho rincorso negli anni … e che
spesso non ho trovato … forse perché ognuno di noi, alla ricerca di se stesso,
ha cercato di crearsi un limbo dove affermarsi e auto proteggersi.
La mia corazza piano piano
si scioglie grazie alle parole di una sconosciuta che, nonostante il suo
evidente disagio psicologico, ha capito il mio e letto il terrore nei miei
occhi.
Così ho conosciuto
Anna, dieci anni passati dentro e fuori i reparti psichiatrici, una problematica
e un disagio che non mi ha spiegato, forse perché non se ne rende conto nemmeno
lei. Ma mi racconta di sua figlia, ormai ventenne, che da quando aveva dieci
anni si prende cura di lei … i ruoli si sono invertiti … la mamma era diventata
figlia da accudire.
E penso alle mie, alla
loro sofferenza in questo momento, la sofferenza di vedere una madre che
sarebbe dovuta essere la loro guida, ma che troppo fragile e dall’animo
spezzato, continuava a far loro del male pensando di fare del bene. E penso che
non ho colto i loro segnali, le ho credute chiuse nel loro egoismo di
adolescenti … quando forse l’egoista ero io persa nella ricerca di qualcosa che
mi avrebbe potuto rendere felice … ma che continuava a scivolarmi dalle mani,
come sabbia.
Gli infermieri controllano
la mia valigia … via accendini … lacci … caricabatterie … bombolette spray … mi
elencano le regole del reparto … doccia solo la mattina entro le dieci … il
cellulare si può ricaricare solo dalle 15 alle 17 consegnandolo al personale …
per asciugarsi i capelli è necessaria la presenza di un familiare … per uscire
dal reparto bisogna chiedere il permesso … la porta è chiusa a chiave … le
visite esterne sono di un’ora e mezza al giorno divise in due volte.
Ho ricevuto solo tre
visite in quei giorni … mio marito … con la triste convinzione che si trattava
più di dovere che di desiderio di stare al fianco di una donna che ormai non
amava più.
Ancora una volta mi
sento un leone in gabbia.
La mia compagna di
stanza è Lucilla, una vivace donnina di 73 anni dai capelli di un rosa strano.
Mi accoglie subito con affetto e mi racconta la sua storia. E’ una storia
paradossale che mi ripete all’infinito. Mi parla di una nuora che accende
fuochi e manovra il male, riuscendo a mettere contro di lei i figli e il marito
che, ubriachi dalla mattina alla sera, le rubano i soldi e la picchiano fino a
romperle una spalla. Ho dei dubbi sulla veridicità di quello che mi racconta.
Ho l’impressione che si sia creata un mondo tutto suo per sfuggire chissà da
che cosa.
Le piace il mio
cellulare, mi fa compilare elenchi di cose di cui necessita. Chiama più volte a
casa. Nessuno è venuta mai a trovarla.
“La mente è come un
paracadute. Funziona solo se si apre …” evidentemente le persone come noi hanno
paura di aprirlo … e preferiscono precipitare nell’oblio.
Avverto in lei
un’energia positiva … nomina spesso Dio … e prega … anche per me.
Mi sento amata … da
una sconosciuta… ancora una volta.
Al mio ingresso in
pronto soccorso ero sola. Chi avrebbe dovuto essere al mio fianco aveva di
meglio da fare. Sola. Senza soldi. Senza pigiama. Senza ciabatte. Senza intimo.
Senza anima. Non ricordo il suo nome, la mia vicina di letto si prende cura di
me.
Mi guardo intorno. In
fondo l’ambiente non è poi così male. Non ci sono sbarre alle finestre come
avevo visto altrove, ma c’è un luminosissimo terrazzo protetto da altissime
vetrate che permettono al sole di entrare e mi danno comunque l’impressione di
uno spazio infinito.
Finalmente comincio a
sentirmi un po’ meno in gabbia.
E’ ora di pranzo. Nel
reparto si mangia tutti insieme … proprio come in una famiglia.
I miei occhi
incrociano uno sguardo perso che vagava chissà in quale mondo … uno sguardo
distrutto dalle lacrime e dalla sofferenza … uno sguardo inespressivo … una
maschera immobile di dolore.
Sento un’energia che
mi attrae verso di lei … provo un approccio. Riesco a sapere solo che si chiama
Sara, ha 39 anni e non può avere figli. Poi mi dice che non si sente di parlare
… e io … rispetto il suo dolore.
Morgana ha 29 anni, ma
non ne dimostra più di 20. Il suo sguardo è spento. Non parla. E’ sempre
buttata sul letto. Si alza solo per fumare e per mangiare. Un altro mondo
chiuso e imperscrutabile … qui ognuno ha il suo … e non riesco a tenderle la
mano perché non la voglio turbare.
Forse dovrei pensare a
me, a fare chiarezza nel mio di mondo, ma sento invece una forza che mi spinge
verso queste anime perse… perse più della mia …
Dimitri, in un
italiano stentato, mi chiede una sigaretta e di fare una telefonata… in questo
posto sono due cose fondamentali …non si riesce a starne senza. E’ gentile, gli
offro col cuore quello che mi chiede. La sera lui contraccambia dandomi di
nascosto metà dell’ultima gomma da masticare che aveva.
Ancora una volta uno
sconosciuto ha avuto un’attenzione per me.
Giuseppe mangia in
continuazione e passeggia per il lungo corridoio tutto il giorno. Canta, e io
mi trovo a fare una cosa che pensavo non avrei avuto mai il coraggio di fare in
quel posto, con persone che non conoscevo … canto … canto insieme a lui … e ridiamo
…
Li … nessuno ride mai
…
Ci sediamo uno di
fronte all’altro e, senza che gli chiedessi niente, mi racconta di lui.
Non è lucido, ma il
racconto fila perfettamente. Deve essere stata una persona colta, usa termini
appropriati e di un certo livello. Viveva con la mamma, malata di Alzheimer che
lui ha accudito con dedizione e amore, ma racconta di una sorella che gli ha impedito
di farsi una vita propria, distruggendo il rapporto d’amore che si era
costruito con una donna che amava e da cui era amato.
Non so poi cosa sia
successo, ma so che ha passato quattro giorni legato al letto dell’ospedale e
ha avuto un ricovero coatto.
Ora è tranquillissimo,
ma non può uscire da solo dal reparto. Chiama a casa supplicando qualcuno di
andarlo a trovare.
Non è venuto mai
nessuno.
Ma Giuseppe ha trovato
il suo angelo, un infermiere tirocinante che si prende cura di lui, gli porta
le sigarette e l’accompagna al bar per comprargli la cioccolata che lui adora.
Nella sfortuna spesso
si ha la fortuna di incontrare sulla propria strada chi si prende cura di te,
anche se non hai niente da dargli in cambio.
Lo straniero arriva
con l’infermiere in sala all’ora di cena.
Quando ci vede tutti
li, si rifiuta di mangiare insieme a noi, vuole farlo da solo in camera, ma non
è possibile.
Cerchiamo di fargli
capire che andiamo noi nelle nostre camere per lasciarlo mangiare in sala … lui
se ne va … non vuole nessun contatto con gli altri.
Nel mondo “di fuori”
spesso ognuno pensa a se stesso, preso dalla propria vita, dai propri affanni e
dai propri problemi … mi stupisco … li dove dovrebbe essere così, esiste invece
una solidarietà incredibile.
Riuniamo il cibo che
abbiamo, merendine, fette biscottate, biscotti, marmellate, acqua e gliele
portiamo in camera sul comodino, così può mangiare quando ha fame.
Fa finta di dormire,
ma non vuole il nostro aiuto. Quando usciamo dalla stanza, si alza e urlando,
butta tutto nel cestino.
L’infermiere ci dice
di lasciar perdere … perché basta poco per turbare gli equilibri e poi le
situazioni diventano ingestibili.
Rinunciamo all’impresa
… forse quando e se avrà voglia di entrare in contatto con noi, lo farà lui.
La dottoressa mi ha
detto che questo non è il posto per me e quindi domani tornerò a casa.
Ho paura. Qui mi sento
protetta..."
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